La Resistenza delle donne per il Pane

La Resistenza delle donne per il Pane

La Resistenza delle donne per il Pane

Quando si parla di Resistenza si parla di partigiani. O di partigiane. Di uomini e donne che combatterono l’invasore tedesco. Ma la Resistenza le donne l’hanno fatta in tanti modi. Resistendo alla fame, proteggendo i figli, tirando avanti giorno per giorno con quel poco che avevano. Come quelle che facevano interminabili code davanti ai fornai per trovarsi, dopo ore e ore, con un pugno di mosche in mano. E i loro figli affamati e sempre più magri che le guardavano e attendevano… mentre l’inverno raggiungeva la sua fase più rigida, interi quartieri rimasero senza pane e le madri, pur di mettere qualcosa in tavola e riempire lo stomaco dei propri figli presero a cuocere, quando si riuscivano a reperire, carrube lesse o bucce di patate bollite sul fuoco acceso con mobili e suppellettili. Il peggio, tuttavia, doveva ancora venire: la vera e propria emergenza alimentare, infatti, esplose solo dopo due provvedimenti adottati dalle autorità cittadine a seguito dell’attentato di via Rasella: oltre alla rappresaglia delle Fosse Ardeatine, il generale Kurt Maeltzer, comandante della città di Roma, emise un’ordinanza con la quale riduceva da 150 a soli 100 grammi la razione quotidiana di pane per i civili.

Fu così che, il 7 aprile del 1944, Falsetti Clorinda, Ferracci Italia, Ferrante Elvira, Fiorentino Eulalia, Giardini Elettra Maria, Izzi Assunta Maria, Loggreolo Silvia, Pellegrini Esperia, Piazza Concetta e Pistolesi Arialda, stanche e disperate, assaltarono il forno Tesei, uno dei forni di Roma che riforniva le truppe nazifasciste. Cercavano il pane ma l’unica cosa che trovarono fu la morte. Tutte quante. Le donne dei quartieri Ostiense, Portuense e Garbatella avevano scoperto che il forno aveva grossi depositi di farina e decisero così di assaltarne il deposito, che apparentemente non sembrava presidiato dai tedeschi. Chi dirigeva il forno, non si sa se d’accordo con loro o per evitare vendette o danneggiamenti, lasciò entrare le donne e consentì loro d’ impossessarsi di piccoli quantitativi di pane e farina. Ma qualcuno, qualche maledetta spia, chiamò la polizia tedesca. Cosi giunsero molti soldati della Wehrmacht.

Le donne erano ancora sul posto, con il loro bottino di pane e farina, quando videro i nazisti arrivare. Cercarono tutte di scappare, chi in una direzione chi in un’altra, ma furono bloccate in prossimità del ponte di ferro. Vennero strette tra i due blocchi: erano senza scampo. Qualcuna riuscì a fuggire lungo l’argine, mentre altre, vedendo che non ce l’avrebbero fatta, s’arresero. Lasciarono cadere a terra il pane e alzarono le mani, gridando e implorando pietà. Ma i nazifascisti non ebbero pietà.

Secondo le testimonianze, una delle donne venne condotta sotto il ponte e stuprata dai soldati tedeschi e da repubblichini fascisti, e subito dopo assassinata con un colpo di pistola alla testa. Ne presero dieci e le disposero contro la ringhiera del ponte, di spalle ai soldati, rivolte al fiume sotto di loro. Si era fatto silenzio. Si udiva solo la voce del caporale che preparava l’eccidio, che gridava ordini secchi e incomprensibili in tedesco. Qualcuna di loro si era messa a pregare, ma nessuna osava voltarsi a guardare gli assassini. Restarono in attesa, fino a quando non ci fu più gente intorno e quando anche le finestre della casetta costruita al limite del ponte vennero chiuse. Il silenzio e la paura raggelavano il sangue. I tedeschi si posizionarono dietro le donne, e fecero fuoco. Le uccisero tutte “come si ammazzano le bestie al macello”. Ma ucciderle non era abbastanza. Dovevano anche divenire un esempio. Per tutte le altre. Per tutti gli altri. Per chiunque anche solo pensasse di ribellarsi. I corpi delle donne furono lasciati a terra in mezzo alle pagnotte, e la farina intrisa del loro stesso sangue. Per tutto il giorno. Si impedì a chiunque di rimuovere i cadaveri. Solo quando calò la notte, e il buio avvolse i loro corpi, le trasportarono all’obitorio, come fossero quei sacchi di farina che avrebbero dovuto sfamarle… e lì i parenti poterono procedere al riconoscimento.

Un’intera nottata/buttato vicino/a un compagno/massacrato/con la sua bocca/digrignata/volta al plenilunio/con la congestione/delle sue mani/penetrata/nel mio silenzio/ho scritto/lettere piene d’amore – Non sono mai stato/tanto/attaccato alla vita.(Giuseppe Ungaretti)

Questo terribile evento è ricordato come l’eccidio del Ponte dell’Industria a Roma, detto dai romani “Ponte di ferro”. Oggi, le 10 donne, le 10 combattenti, che lottavano contro la fame, la miseria, la disperazione, per sé e per le loro famiglie, che fecero Resistenza non solo per un tozzo di pane, ma per la dignità di vivere, che resistettero contro l’invasore con quel semplice e coraggioso gesto che costò loro la vita, queste donne indimenticabili sono ricordate con una bellissima lapide che le ritrae su due file mentre il loro sguardo è rivolto… verso dove? Non guardano il fiume. Forse guardano gli ingressi del ponte, per cercare una via di fuga? A me piace pensarle che guardano avanti, speranzose, verso un futuro di libertà e democrazia, un futuro dove nessuno debba più patire la guerra e la fame. Un futuro che deve ancora venire. Un futuro per il quale occorre ancora e sempre combattere.

A venire c’è un mondo

che a venire dovrà

FONTI:
Carla Capponi, Cuore di donna, Il Saggiatore, Milano 2000.
Cesare De Simone, Donne senza nome, Edizioni Mursia, Milano 1998.
Andrea Fermi. Storie di Resistenza dimenticata: l’eccidio del “Ponte dell’Industria” a Roma
La Resistenza dimenticata – l’eccidio del 7 aprile 1944 –Circolo Giustizia e Libertà Roma

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