Ilse: quella poesia che non capirò mai e che si chiama Amore

Ilse: quella poesia che non capirò mai e che si chiama Amore

Ilse: quella poesia che non capirò mai e che si chiama Amore

Non so voi, ma io che mastico poesia ogni giorno, di fronte a questa poesia … ecco…non capisco. Non capirò mai. Lo so. È qualcosa di troppo grande e forse troppo estraneo perché lo si possa fare. Almeno per me. Non capirò mai come, potendo evitarlo, Etty Hillesum sia salita, cantando, su un treno diretto ad Auschwitz. Ma ancora meno riesco a capire come qualcuno possa avere tale poesia dentro – e tale forza – da cantare una ninna nanna a dei bambini mentre entra con loro a morire nella camera a gas. Non è un film come “La vita è bella” di Benigni ma una storia vera. Questa è la storia di Ilse Weber, che il 6 ottobre 1944 accompagnò suo figlio Tomáš e altri bambini nelle docce di Auschwitz, cantando Wiegala, una ninna nanna composta per loro. Ilse era una musicista e questa canzone (che potete ascoltare a questo link), è rimasta nella memoria dei sopravvissuti come simbolo del massacro di tutti gli innocenti. Dobbiamo sentirci così anche noi, tutti, dei sopravvissuti. Sopravvissuti a quella guerra. Perché siamo nati dopo, perché non c’eravamo. Sopravvissuti in contumacia. Ilse, come Etty, comprende subito la ferocia del nazismo e quale sarà il proprio destino, a cui non può e non vuole sottrarsi. “Domani ci sei tu, se oggi tocca agli altri, privati dei diritti, siamo tutti esposti

Nel 1938 Ilse scrive alla sua amica: “Potrò ancora continuare a credere in Dio? Carissima Lilian, (…) Fino a oggi ho creduto in Dio, ma se non darà in breve tempo la dimostrazione della sua esistenza, non potrò più crederci. Questa persecuzione degli ebrei è disumana. Che cosa dobbiamo fare, dove dobbiamo andare? (…) non sono peggiore di quelli che dipingono noi ebrei come inferiori, cattivi e degenerati, no, al contrario, io sono migliore, lo dico senza falsa modestia, so chi e cosa sono!

Ma essere migliori spesso è scegliere la sofferenza, quando non la morte, e non la via più facile. Come scriveva Hanna Arendt. “Chi sceglie il male minore dimentica rapidamente di aver scelto a favore di un male”.

Ilse Herlingher Weber, musicista e poetessa, era un’artista poliedrica. Prima della guerra era un’autrice affermata di letteratura per bambini e conduceva programmi radiofonici (fiabe trasmesse alla radio) quando, a 39 anni, fu deportata a Theresienstadt, il famoso Terezin. Era il 1942. Ilse era nata nella attuale Repubblica Ceca nel 1903, da una famiglia ebrea di lingua tedesca. Fin da piccola amava la lettura, si dilettava a suonare la chitarra, il liuto e la balalaika. A 22 anni pubblicò i primi scritti entrando a far parte del variegato mondo intellettuale ceco. A 27 anni si trasferì a Praga dove sposò Willi Weber con cui avrà due figli maschi, Hanuš e Tomáš.

A seguito dell’occupazione nazista del 1939, per mettere in salvo il figlio maggiore Hanuš, di soli 8 anni, se ne separa, come nel film “La scelta di Sophie”, “spedendolo” letteralmente presso l’amica di una vita, Lilian. Hanus riesce a partire con un “kindertransport”, insieme ad altri seicento bambini ebrei, sottratti ai nazisti grazie a un agente di borsa inglese, Nicolas George Winton, e raggiunge in treno l’unico paese europeo che allora accettava di accoglierli, l’Inghilterra. Lì fu affidato a Lilian che riuscirà a consegnarlo alla madre di Ilse che vive in Svezia. Per fortuna, perché nel 1940 Ilse, Willi e il piccolo Tomáš, vengono rinchiusi nel ghetto di Praga.

Ilse e Tomáš vengono deportati a Terezin nel febbraio del 1942. Lì Ilse fa l’infermiera ‘nell’ospedale’ dei bambini, componendo canzoni per loro e per gli altri prigionieri. Cantava poesie accompagnandosi col liuto e la chitarra. Ilse faceva tutto il possibile ma le medicine erano proibite ai prigionieri ebrei…. Mentre era internata, nel pieno di quell’orrore, lei scriveva. Lei cantava. Ha scritto e musicato circa 60 poesie-canzoni e ninne nanne durante la sua permanenza nel “campo dei bambini”. Quegli scritti sono ora diventati tutti patrimonio comune dell’umanità. Erano parole di conforto e di speranza per tutti i deportati, che le imparavano a memoria e vi si aggrappavano. Erano luce nel buio profondo di quel Lager. Ninne nanne, filastrocche, poesie, canzoni, nate nelle notti insonni in cui Ilse in infermeria stava accanto ai piccoli malati, dopo lunghe giornate trascorse ad accudirli come una madre. Molte delle sue composizioni, cariche di nostalgia, sono dedicate a Hanuš; altre a tutti bambini di Theresienstadt; in esse ci racconta ciò che provava, vedeva e viveva in quell’inferno.

Io vado errando per Theresienstadt, col cuore pesante come piombo. Fino a quando il mio cammino si interrompe. Proprio ai piedi del bastione. Là rimango nei pressi del ponte E guardo verso la vallata: vorrei tanto andare lontano, e ritornare a casa mia! Casa mia! — che meravigliosa parola, che tanto mi pesa sul cuore. La casa, me l’hanno tolta E ormai non ne ho più nessuna. Io vado errando rassegnata e triste, oh, quanto tutto questo mi pesa: Theresienstadt, Theresienstadt quando il nostro soffrire terminerà, quando riavremo la libertà?

Il marito Willi fu deportato ad Auschwitz nel 1944, grazie al cielo le sopravviverà. Willi era riuscito a seppellire sotto terra, in tutta fretta, nel capanno degli attrezzi, le poesie e le canzoni che Ilse aveva composto nei due anni di permanenza a Terezin. Troviamo tutti i suoi scritti nel libro ‘Quando finirà la sofferenza? Lettere e poesie da Theresienstadt‘ di Ilse Weber (Lindau, pp. 292, euro 24,50). Riuscite a immaginarlo Willi tornare a Terezin, scavare a mani nude tra le macerie per riportare alla luce le parole, i versi e gli spartiti musicali di Ilse? Io sì. Una cinquantina di poesie composte nel campo prima di essere gasata insieme a Tomáš. Nel libro ci sono anche le lettere che scrisse alla sua più cara amica Lilian, quella a cui nel 1939 aveva affidato suo figlioletto Hanuš. Se la storia dei Weber è in sé una storia straordinaria, le poesie composte nel campo da Ilse sono di una imperdibile bellezza. Ilse decifra i fatti con minuzia e precisione, di come l’antisemitismo avvelenasse la vita degli uomini. Così come Hetty Hillesum nei suoi Diari, non si limita a descrivere solo ciò che vive nel campo, ma ci racconta di cosa sente, di quanto e come soffre facendosi una custode della memoria: compie un gesto di cui è capace solo chi si lascia trasformare da ciò che gli accade, che si lascia trapassare dalla vita mentre tutto e tutti intorno muoiono. Ci prende per mano facendoci compagne del suo cammino. Ci dona la forza di guardarci dentro e di meglio conoscere il mondo interiore. Sì, perché lo scrivere di Ilse è puro amore e arriva all’anima di chi si approccia alle sue parole con un atteggiamento meditativo.

Il 10 giugno 1942 il villaggio ceco di Lidice fu completamente distrutto da nazisti per vendetta in seguito all’attentato a Praga contro il ‘Protettore del Reich della Boemia e Moravia’, Reinhard Heydrich. Tutti gli uomini vennero fucilati, le donne e bambini deportati a Terezin come fossero un gregge. Questa è la poesia che Ilse dedica loro poco prima di essere deportata:“Le pecore di Lidice”

Le pecore lanute bianche e gialle trottano lungo la strada. […] Le pecore lanute bianche e gialle, tanto lontane da casa, bruciate le stalle, assassinati i padroni. Oh, tutti gli uomini del villaggio, tutti sono morti della stessa morte. […] Deportate le donne laboriose che curavano il gregge, scomparsi i bambini gioiosi che si rallegravano degli agnelli, distrutte le piccole case dove albergava la pace, un villaggio intero annientato, soltanto gli animali graziati. Queste sono le pecore di Lidice, adatte proprio qui, nella città dei senza patria, animali senza casa. Chiusi da un muro, accomunati dal crudele destino, il popolo più tormentato della terra e il gregge più triste del mondo. […]

Il giorno in cui Ilse giunse al capolinea del treno su cui era salita volontariamente per non abbandonare i suoi bambini malati, arrivata ad Auschwitz pienamente consapevole della sorte che l’attendeva, fu riconosciuta da un detenuto che la vide mentre cercava di consolare i “suoi” bambini messi in fila davanti alle docce. Il detenuto le si avvicinò, mentre le sentinelle erano lontane e Ilse chiese: “È vero che possiamo fare la doccia dopo il viaggio?

Egli non volle mentirle e rispose: “No, questa non è una doccia, è una camera a gas. Ti ho spesso sentito cantare nell’infermeria. Entra con i bambini il più in fretta possibile e cantando siediti con i bambini per terra e continua a cantare. Canta con loro ciò che hai sempre cantato. Così inalerete il gas più velocemente, altrimenti verrete calpestati e uccisi dagli altri quando scoppierà il panico”. La canzone che cantò insieme a suo figlio e agli altri bambini, quel 6 ottobre 1944 entrando nelle docce di Auschwitz, fu appunto “Wiegala”. Da quel giorno, questa ninna nanna fu cantata da tutti i bambini prima di entrare nelle camere a gas di Auschwitz ed è rimasta nella memoria come simbolo del massacro degli innocenti.

“Fai ninna, fai nanna, mio bimbo, lo sento risuona la lira al soffiare del vento, nel verde canneto risponde l’assolo del canto dolce dell’usignolo. Fai ninna, fai nanna, mio bimbo, lo sento risuona la lira al soffio del vento. Fai ninna, fai nanna, gioia materna, la luna come una grande lanterna, sospesa in alto nel cielo profondo volge il suo sguardo dovunque nel mondo. Fai ninna, fai nanna gioia materna, la luna è come una grande lanterna. Fai ninna, fai nanna, sereno riposa dovunque la notte si fa silenziosa! Tutto è quieto, non c’è più rumore, mio dolce bambino, per farti dormire. Fai ninna, fai nanna, sereno riposa dovunque la notte si fa silenziosa!”

Le canzoni di Ilse Weber sono state registrate. “Lullaby” ( Wiegala) è stata cantata meravigliosamente dal mezzosoprano Anne Sofie von Otter (2007).

Non capirò mai come, immersi in quel dolore, sofferenza e terrore si possano avere queste parole.

“Tutto ciò che sta succedendo ora ha sicuramente un senso, un senso che oggi non riconosciamo ancora, che tuttavia è nascosto in quello che sta avvenendo. Noi ebrei siamo le vittime, ma non siamo solo noi a essere infelici[…]Circondati dalla morte e dall’orrore, non dobbiamo perdere la fede in noi stessi, dobbiamo costruire altari alla gioia, nei quartieri affollati e bui”.

Hanuš Weber, suo figlio, oggi vive a Stoccolma e si chiama Tomáš in onore del fratello minore, ucciso con la madre ad Auschwitz.

Non capirò mai quanta forza, resistenza e fede hanno consentito quel giorno a Ilse di cantare.

«Colma di dolore, senti la tua solitudine» (I.W.)

Provo un amore senza fondo.

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