On the basis of sex

On the basis of sex

A memoria di donna, in questo caso la mia, non si era mai vista una stagione cinematografica così ricca di registe e di personaggi femminili storicamente importanti! Un segno da considerare non una moda, come insinuano alcuni critici, ma un cambiamento epocale. Una giusta causa, della regista Mimi Leder, mette insieme queste due cose. Il titolo originale, lo stesso di questo scritto, è, come accade sempre, molto più significativo della traduzione italiana.

Il film racconta la storia di Ruth Bader Ginsburg, ancora vivente e famosissima negli Stati Uniti: una delle prime donne ammesse alla facoltà di legge di Harvard, laureata poi alla Columbia, fu colei che, battendosi in tribunale, riuscì a smantellare tutte le leggi americane che sancivano la discriminazione sessuale: erano 150, e quasi tutte a sfavore delle donne. Servivano dunque a ritagliare e incasellare dal punto di vista legale il ruolo sociale femminile.

Ruth iniziò questo lavoro nel 1970, ma la vicenda comincia molto prima, nel 1956, con il suo ingresso ad Harvard, che rimane la scena più bella del film. Una delle nove donne quell’anno ammesse per la prima volta alla facoltà di legge (prima si pensava che non fosse una facoltà adatta alle donne!), Ruth avanza, fiduciosa e un po’ spaesata, ondeggiando nel suo brillante abito bluette, unica macchia di colore nell’esercito di giovani maschi che ostentano gli stendardi di un potere ormai ingrigito, ma non per questo meno schiacciante, con i loro completi scuri e le loro valigette tutti uguali. Salvo scoprire che dentro la facoltà non ci sono bagni per le donne, così come accadeva negli stessi anni a Margaret Thatcher che faceva il suo ingresso nel parlamento britannico (si impara guardando il bel film The iron lady, di Phillyda Lloyd, 2011, con la strepitosa Meryl Streep). Può cambiare una regola, ma le donne rimangono il soggetto imprevisto per eccellenza. Del resto succedeva lo stesso a Bologna negli anni ’90, quando, entrando nell’aula magna appena ristrutturata dell’università, io e le mie amiche ci accorgemmo che l’unico bagno a disposizione aveva i vespasiani nell’atrio!

Alla cena che il rettore della facoltà di legge tiene per accogliere le nuove frequentanti, le ragazze, alla presenza di colleghi maschi e coetanei, vengono interrogate: si chiede loro una buona motivazione per aver pensato di rubare il posto a uno studente maschio, invece di sposarsi e fare le mogli e le madri. L’intelligenza e l’impegno negli studi non sono sufficienti per essere lì, devono avere anche una buona scusa. Una scena che colpisce per la sua ipocrisia e per il tono surrettiziamente violento e umiliante dell’interrogazione. Conclusa la sua formazione universitaria, alla Columbia University di New York, e risultata la prima del suo corso, Ruth cerca lavoro negli studi legali della grande città, ma nessuno, nonostante il suo curriculum perfetto, pensa minimamente di assumerla: i posti sono destinati agli uomini, ai “capifamiglia”; oppure, nel caso del titolare di uno studio che si mostra fintamente comprensivo, le mogli degli altri avvocati sarebbero gelose! Sarà costretta a sacrificare il suo desiderio di praticare la legge attivamente e ad accettare di insegnare in una scuola di legge: insegnante e infermiera, due ruoli che le donne si erano conquistate nell’800 e che erano stati molto importanti per quelle che potevano studiare e rendersi così economicamente autonome, ma che negli anni ’50 le ingabbiavano e precludevano loro le altre carriere intellettuali.

Per mettersi finalmente all’opera come vuole lei, Ruth dovrà dunque aspettare il 1970, quando la società americana era radicalmente cambiata grazie ai movimenti di protesta giovanili; ma le leggi erano rimaste immutate, profondamente ostili e discriminanti verso le donne: e il caso che le permette di lanciarsi riguarda paradossalmente un uomo che desidera assistere la vecchia madre malata ma non riceve uno sgravio fiscale, concesso solo alle donne perché solo a loro, secondo i legislatori, è affidato il compito dell’accudimento. In tribunale Ruth dovrà combattere non solo contro una legge dello stato, ma contro quella che i giudici pensano essere una legge naturale universale, un mondo in cui gli uomini agiscono nel contesto sociale e le donne stanno a casa ad accudire: una pietra miliare per lo scardinamento della cultura patriarcale! Costituito questo precedente, tutte le leggi palesemente inique per le donne cadranno ad una ad una, grazie a un impegno assiduo con cui Ruth realizzerà il suo desiderio di fare l’avvocata. Per questa impresa Ruth Bader Ginsburg fu nominata dal presidente Clinton giudice della Corte Suprema, seconda donna a ricoprire la carica nella storia di quella istituzione. Vale la pena ricordarlo, per noi che viviamo in un paese che alle donne storicamente importanti non dà adeguati riconoscimenti nelle istituzioni…e tantomeno al cinema!

E c’è una bella coincidenza: la regista Mimi Leder è stata la prima donna ammessa a far parte dell’American Film Institute. Quanti rimandi nelle biografie femminili!

Questo film è stato disprezzato da una parte della critica italiana per il suo impianto narrativo tradizionalmente hollywoodiano, e da molti commentato come una storia sul trionfo delle pari opportunità. Ma la vicenda trascende i difetti della regia e della sceneggiatura (scritta dal nipote di Ruth, e anche questo è un bel gesto di gratitudine e riconoscimento) e colpisce comunque la mente e il cuore.

Pochi poi osano pronunciare la parola “femminismo”, di cui effettivamente il film tratta. Quando Ruth racconta la storia della moglie di John Adams, uno dei padri della costituzione americana, che chiede al marito di non dimenticarsi delle donne e viene puntualmente delusa (durante il film apprendiamo anche che in quella costituzione la parola “donna” non compare nemmeno una volta), a noi viene in mente il bel lavoro della filosofa femminista Adriana Cavarero, che negli anni ’80 ci spiegò come i filosofi inglesi del ‘600, che posero le basi del pensiero su cui si reggono le moderne democrazie, non avessero minimamente preso in considerazione l’esistenza delle donne. Quindi la democrazia non contempla le donne come soggetti, e non è ad essa che le donne possono guardare per essere libere.

Ruth vuole che tutte le donne abbiano la possibilità di vivere seguendo i loro desideri, che non debbano più rinunciare alle loro passioni, come è successo a lei negli anni ‘50, e per questo è una femminista. E se all’inizio degli anni ’70 la società americana è talmente cambiata da costringere i giudici a darle ragione, è perché nel 1964, all’università di Berkeley, un gruppetto di ragazze si erano separate dai loro amici e compagni maschi del movimento di protesta studentesco, capendo che lì non ci sarebbero mai stati né ascolto né spazio per i loro desideri.

Ed è per lo stesso motivo che noi siamo qui oggi. Ma se il mio ragionamento non fosse sufficiente, i commenti di sollievo e le facce contente e sorridenti delle vecchie signore che nel pomeriggio domenicale uscivano dalla sala, e che gli anni ’50 li avevano vissuti, sarebbero bastati a dimostrare che valeva davvero la pena di fare questo film!

 

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