Le Invisibili

Le Invisibili

Le Invisibili

Sono in molti a pensare, come me, che in questo scorcio di inizio millennio viviamo una pesantezza che ricorda gli stati d’animo dei testimoni consapevoli che vissero gli anni ’30 del secolo scorso: ma oltre alla rinascita dei fascismi, già di per sé terrorizzante, una prospettiva doppiamente angosciosa segna il nostro orizzonte, quella del cambiamento climatico e della possibile distruzione del nostro pianeta. Credo che il senso di sfiducia nei confronti delle istituzioni e dei poteri che hanno la pretesa di regolare le sorti umane (siano essi alla luce del sole come i governi o più defilati come le multinazionali) abbia raggiunto il suo massimo storico. Questo sentimento ha una ricaduta costante sulle nostre vite quotidiane, perché ci impone di sopportare, e farcene una ragione, un senso enorme di impotenza individuale. Perciò è stato per me salutare vedere il film Le invisibili, del regista francese Louis-Julien Petit. La sceneggiatura, oltre che dal regista, è stata scritta da Marion Doussot e Claire Lajeunie, autrice di un documentario e di un saggio che hanno dato lo spunto al film e che hanno portato il regista ad un anno di esperienza sul campo per girare le riprese.

Il film racconta la storia di un centro di accoglienza diurno per donne senzatetto e delle sue abitanti: le operatrici del centro sono (bravissime) attrici professioniste, le ospiti sono autentiche, cioè donne che hanno fatto nella realtà le esperienze di strada di cui il film parla. La particolarità di questo centro diurno, che si chiama Envol (in italiano sarebbe Il Volo) è che le sue competenti operatrici hanno la pretesa di accogliere le ospiti che ne hanno bisogno anche di notte, pur non avendo il permesso formale di farlo; e quando riescono a trovare una sistemazione in un alloggio per qualcuna di loro, invece di mollarla al suo destino (come prescrive la legge istituzionale) vogliono accompagnarla, e le permettono di mantenere i contatti con il centro: perché sanno che è necessario per un vero reinserimento sociale, sanno che, anche se ha una casa, una donna abituata alla strada, abbandonata a se stessa, rischia di ritornarci di lì a poco. A causa di queste irregolarità i capi dei servizi sociali indicono una riunione in cui comunicano alle operatrici che hanno deciso di chiudere il loro centro: dati statistici alla mano, le accusano di scarsa “produttività”.

Ma i numeri in questo caso dicono il falso: se 4 donne reinserite socialmente dall’Envol sono salvate per sempre, di 10 donne seguite da un altro centro non si sa in realtà nulla, perché dopo aver trovato loro un posto per dormire in una casa le istituzioni si dimenticano di loro. Una rappresentazione distorta della realtà che sempre subentra quando le relazioni umane vengono valutate con gli stessi parametri della produzione di oggetti. E nemmeno viene preso in considerazione il fatto che l’Envol, unico centro rivolto solo alle donne, è preferito dalle senzatetto rispetto agli altri centri misti, dove le donne rischiano di essere molestate sessualmente. La chiusura del centro è fissata da lì a tre mesi: dopo il primo moto di totale scoramento, una delle operatrici, Audrey, dotata di perseveranza e testardaggine fuori del comune, riuscirà a convincere le colleghe e la direttrice ad agire per provare a sistemare le donne in quel momento ospiti del centro: che, con un misto di orgoglio e autoironia, per nascondere la loro vera identità e sopportare la loro situazione si danno nomi improbabili e altisonanti: Lady D, Edith Piaf, Beyoncé, Salma Hayek…

Con un effetto esilarante e che intenerisce allo stesso tempo. Le pratiche escogitate da Audrey e le altre per conseguire il loro scopo sono assolutamente illegali, e trasformano il centro in una specie di scuola clandestina che ricorda l’esperienza del Retravailler inventato da Evelyne Sullerot negli anni ’70 per aiutare le casalinghe che, dopo anni passati a crescere i figli, volevano rientrare nel mercato del lavoro, e partiva dal presupposto che la gestione di una casa e l’allevamento e l’educazione dei figli contenessero un largo ventaglio di competenze simboliche e pratiche che potevano essere trasformate in solide abilità lavorative. Perciò intervistano una per una le loro ospiti, con l’aiuto volontario della psicologa Hélène, che vuole così reagire al ridicolo comportamento di un marito che, come da copione, la tradisce con la più giovane segretaria: cercando di tirare fuori tutte le loro esperienze lavorative dimenticate e costruire per ognuna un curriculum utilizzabile. E insegnano loro, assecondando il loro gusto per i colori, a vestirsi e a rispondere in modo adeguato per sostenere un colloquio di lavoro.

Un percorso non scevro di fallimenti e delusioni: ad un certo punto Audrey, guardandosi nello specchio di casa in una delle sue solite solitarie serate, si accorgerà di essere così trasandata e disperata da somigliare alle sue senzatetto. E certo colpisce il livello di identificazione di queste attrici/educatrici con le donne di cui si prendono cura: forse un passaggio necessario per riuscire ad aiutarle veramente. In controtendenza rispetto al linguaggio asettico e alla distanza professionale di cui si ammantano i documenti dei servizi sociali. Mettendo in moto tutte le loro conoscenze e relazioni sociali, Audrey e le altre riescono ad organizzare all’interno del centro una giornata di incontri tra possibili datori di lavoro e le loro assistite, e qualcuna di loro viene veramente assunta.

Il giorno stabilito per la chiusura del centro, tutte le donne a cui era servito come punto di riferimento lo abbandonano in modo spettacolare: davanti al pullman e ai poliziotti municipali venuti per accompagnarle in un altro centro, fanno la loro uscita una alla volta, sfilando su una passerella di materassi (quelli su cui avevano passato le notti al centro), vestite elegantemente di colori sgargianti, con andatura orgogliosa e il sorriso sulle labbra, salutando con la mano come grandi star. Alcune salgono con dignità sull’autobus, altre si dirigono allegramente fuori dal cancello del centro, per affrontare il mondo da sole sulle proprie gambe.

E il film ci lascia con la gioia di aver assistito ad un miracolo. Ma si tratta invece di qualcosa di molto reale: di fronte alla volontaria abdicazione di chi fornisce l’aiuto istituzionale, Audrey e le sue amiche ci hanno mostrato che l’unica strada per non perdere completamente il senso di sé, e la fiducia nelle possibilità del proprio agire, risiede nel non rinunciare al proprio desiderio, al desiderio femminile. Che metterlo in moto e continuare a seguirlo anche quando è apparentemente impossibile ci dona il coraggio e la capacità di affrontare il rischio di spingerci oltre ciò che è ritenuto legale, laddove i termini della legge ignorano la dignità del vivere. Ed è ormai chiaro che di fronte alla concreta possibilità della distruzione della vita, non possiamo aspettarci nulla da coloro che ci governano, e non siamo tenuti a un rapporto di lealtà nei loro confronti. Per questo, soprattutto nel nostro che è il paese della corruzione per antonomasia, i frequenti appelli al rispetto della legalità risultano così vuoti, insopportabilmente retorici e drammaticamente insufficienti!

Il nostro forse è davvero il momento storico in cui dobbiamo decidere quali sono per noi i legami più importanti: così come Audrey e le altre hanno scelto di stare dalla parte delle donne senzatetto di cui si occupavano, e di sostenere il loro desiderio di riscatto. Perché per una donna seguire in maniera autentica il proprio desiderio porta con sé la responsabilità di saper nutrire anche il desiderio delle altre. Nella convinzione, evidentemente condivisa dall’ottimo regista Louis-Julien Petit, che il primo e unico indicatore per valutare il valore di una civiltà, sia la qualità del lavoro di cura che è capace di esercitare verso chi ha bisogno di aiuto. E su questo, senza alcun dubbio, la storia e l’esperienza delle donne hanno molto da dire. (C.S.)

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