Mafia patriarcale

Mafia patriarcale

Mafia patriarcale

Non sarei andata a vedere il film “Il traditore” se non fosse stato di Marco Bellocchio. Mi sono sempre tenuta lontana dai film e dalle serie che hanno fatto della mafia, e della criminalità organizzata in genere, un’epopea, trattando i suoi personaggi alla stregua di eroi epici. Anche per astenermi, ne ho paura – devo confessarlo, dal contatto con la tristezza squallida e senza scampo dell’idea che della vita umana e del mondo portano avanti simili personaggi, e che affonda le radici in profondità nella cultura del nostro paese.

Ma come era già avvenuto in “Buongiorno, notte”, film del 2003 sul rapimento di Aldo Moro, Bellocchio si rivela di nuovo capace, uno dei pochissimi nel cinema italiano, di restituirci un pezzo della nostra storia facendola diventare, attraverso le modalità peculiari alla sua narrazione, una parte di noi. E cogliendone sempre punti cruciali: in questo caso, trattando la storia di Tommaso Buscetta, il primo dei cosiddetti “pentiti”, ferma il momento in cui la connivenza tra stato e mafia poteva essere pubblicamente svelata e provata, e non lo fu. Ancora una volta, come per il film sul caso Moro, dove aveva fantasticato sulla di lui liberazione, Marco Bellocchio ci mostra un paese ad un passo dalla possibilità di cambiare concretamente le sue istituzioni, ma che alla fine non cambia. Non cambia mai. Cambiano i nomi, si spostano i poteri, ma la concezione del sistema resta la stessa. Può solo peggiorare nella sua nocività. Vanno in carcere Salvatore Riina e i suoi accoliti, ma il processo a Giulio Andreotti, l’uomo di stato più potente d’Italia, si conclude con un nulla di fatto. Una “famiglia” mafiosa può finire in carcere, e già sappiamo che sarà sostituita da un’altra, ma il potere politico non si tocca. II giudice Giovanni Falcone viene ucciso con la sua “famiglia”, sua moglie Francesca e la sua scorta, perché nei suoi colloqui con Buscetta ha osato alzare lo sguardo a quel livello. E col tempo la collaborazione tra mafia e politica dilaga da Roma e diventa capillare, come ha dimostrato proprio quest’anno il processo di Parma a proposito dell’Emilia Romagna.

Tocca nominare la “famiglia” parlando di mafia, è questo il suo aspetto più inquietante, perché ci rimanda a qualcosa di cui facciamo o abbiamo fatto tutti parte. Un’idea cupa e omertosa di famiglia che secondo me giace fortemente abbarbicata alle convinzioni profonde del nostro paese. Una famiglia totalitaria, dove si può fare tutto per la propria, anche distruggere le famiglie degli altri, e in cui i membri che non seguono le regole vengono repressi violentemente e fatti fuori. Non è un caso se il fascismo è stato un’invenzione italiana.

Per me spettatrice, due scene del film sono state particolarmente sconvolgenti: quando le donne, mogli e parenti dei mafiosi imputati, irrompono come furie nell’aula del tribunale, gridando a difesa dei loro uomini; e dove la sorella di Buscetta, il cui marito è stato ucciso per rappresaglia, rinnega e infama il fratello davanti ai giornalisti per aver parlato di cose di cui non si deve mai parlare. Vividi esempi di identificazione e totale lealtà femminile verso il regime patriarcale in cui queste donne sono immerse.

Il pensiero femminista ha colto e analizzato con grande lucidità, e direi anche con trepidante sensibilità, questa situazione di miseria simbolica femminile, dato comune a tutte le donne nate nel sistema patriarcale. Miseria dalla quale è stato necessario partire per trovare quello scarto, inscritto nel corpo stesso delle donne, che conduce ad un percorso di autonomia femminile originale. Senza comprensione di ciò che dentro di noi, e dentro le altre, lavora, o ha lavorato, a favore del patriarcato non ci sarebbe libertà.

Ma pur vacillante, e avendo perduto il consenso femminile generale, l’organizzazione patriarcale, di cui la mafia è l’esempio nudo e senza veli, continua ad esercitare il suo fascino su molte donne con la promessa del potere, da cui l’umanità femminile è stata storicamente esclusa: ed ecco l’avvento delle boss mafiose, mogli o sorelle che prendono il posto di mariti e fratelli uccisi o in carcere, approdo ultimo del meccanismo di sostituzione e omologazione al maschile.

Alcune però non ce la fanno e ad un certo punto decidono di collaborare con la giustizia, per salvare se stesse e i loro figli, capaci comunque di confidare in un futuro diverso da quello che sembrava prestabilito per loro.

Ma qualcosa è cambiato dagli anni ‘80 in cui, per primo, Tommaso Buscetta cominciò a raccontare: lui stesso continuava a definirsi con orgoglio “uomo d’onore”, dicendo che i traditori erano gli altri, i corleonesi che, uccidendo indiscriminatamente donne e bambini, avevano tradito i vecchi valori di Cosa Nostra. E adesso, in una sera qualsiasi può capitare, come è successo a me qualche settimana fa, di guardare il TG di RAI TRE delle diciannove e vedere un giovane uomo proveniente da famiglia camorrista che si è ribellato a questo destino. Al giornalista che gli chiede come ciò sia stato possibile, questo ragazzo (il cui nome mi dispiace non ricordare) dice testualmente: “la risposta è un plurale femminile, lo devo a mia madre, alle mie zie, ci vuole una donna perché un uomo possa fare un passo indietro”.

Mi sono venute le lacrime, era come se dalla TV mi dicesse che quello che insieme ad altre avevo fatto non è stato invano. (C.S.)

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