Vite (in)visibili di donne migranti. Un progetto europeo le racconta con immagini e parole. 

Vite (in)visibili di donne migranti. Un progetto europeo le racconta con immagini e parole. 

Vite (in)visibili di donne migranti. Un progetto europeo le racconta con immagini e parole.

Raccontare le storie, le vite, i percorsi di migranti e richiedenti asilo, attraverso lo sguardo e il linguaggio degli artisti. Questo l’obiettivo alto che si è posto il progetto europeo “REFEST Images & Words on Refugee Routes”, progetto co-finanziato dal’Unione Europea all’interno del programma Europa Creativa, che ha chiamato a raccolta 32 artisti: 8 poeti dall’Italia, 8 illustratori dalla Spagna e 16 fotografi da Bosnia Erzegovina e Croazia.

A dicembre 2017, in una Sarajevo avvolta da una candida neve che sembra voler pudicamente celare i segni di vecchie ferite non ancora cicatrizzate, si svolge il primo meeting organizzativo in vista delle residenze artistiche itineranti che si svolgeranno nei quattro Paesi partner del progetto. Ogni residenza lavorerà su un aspetto specifico del tema generale: ‘identità’ per la Spagna, ‘tracce’ per la Croazia, ‘casa’ per la Bosnia e ‘donne migranti’ per l’Italia. In ragione di ciò, scelgo senza esitazione di far parte del gruppo che parteciperà alla residenza italiana, in programma dal 12 al 18 febbraio 2018 a Bologna e a Fano.

La sera che arriviamo a Bologna, durante una cena conviviale e carica d’emozione, ci viene illustrato il programma della settimana di residenza. Il primo appuntamento è per la mattina successiva nella sede dell’associazione MondoDonna che ha organizzato per noi l’incontro con alcune donne ospitate nelle strutture che gestisce. Curiosità ed imbarazzo traspaiono sui loro e sui nostri volti, con l’aggiunta, nel loro caso, di una comprensibile dose di diffidenza. Bisogna trovare il modo di allentare la tensione e ridurre le distanze.

A gettare un ponte, saranno dei semplici lokum, piccoli dolcetti zuccherosi da gustare con il caffè turco, che Imrana e Wanda (le fotografe bosniache) hanno previdentemente portato da Sarajevo. A questo punto il clima si è fatto più disteso e, in circolo, alternatamente, ci presentiamo e raccontiamo, noi e loro. Nigeria, Costa D’Avorio, Guinea, sono i paesi da cui provengono queste giovani donne. Una di loro, con un tenerissimo lapsus, esordisce dicendo “Mi chiamo Fatou, sono italiana”, subito dopo se ne rende conto e scoppia a ridere e noi con lei.

Sono belle, belle davvero, di una bellezza commovente, di quella bellezza che non ti viene consegnata gratuitamente alla nascita, ma ti si cuce addosso quando attraversi fame, guerra e persecuzioni, sopravvivi e rinasci. Il giorno dopo ci diamo appuntamento in Piazza Maggiore, come un qualsiasi gruppo d’amiche in un giorno di festa. C’è un sole complice che proietta le nostre ombre su una parete bianca di fianco alla Biblioteca Salaborsa e le fotografe si lasciano ispirare per scattare foto a quelle sagome di donne che la neutralità del grigio rende uguali.

Non sono un’ombra appiattita
sui muri
e sui marciapiedi
della tua città 
Ho sostanza e colore
un odore
un nome
un’identità
Se mi guardi
in pieno sole
mi potrai vedere
Se ti fermi insieme a me
nel sole
riuscirai a sentire lo stesso calore
Se hai voglia di ascoltare
ho la mia storia
da poterti raccontare
Se poi sotto il sole
insieme
cominciamo a camminare
scoprirai che le nostre ombre 
sono così simili e vicine
che faticherai a distinguere 
la tua dalla mia
E allora capirai
Capirai 
che ho sostanza e colore
un odore
un nome
un’identità
Proprio come te

Anita è appoggiata ad uno di quei dissuasori in pietra che delimitano l’accesso alla piazza con il suo sguardo dolce e triste perso chissà dove. Una scolaresca la oltrepassa lambendola come l’acqua del mare attorno ad uno scoglio, senza degnarla di uno sguardo. Anita, bellissima ed invisibile.

Guardami
Non sono trasparente
Non sono invisibile
Ho occhi che hanno pianto troppo
Pelle ferita
Labbra che faticano a sorridere
Ho una storia alle spalle
che continua a pesare
su queste spalle
che non ti fermi a guardare
fatte di pelle
muscoli e nervi
come le tue
Portano il peso
della mia storia
del luogo in cui ho avuto la sventura di nascere
Che colpa ne ho se sono nata lì e non altrove?
Se il mio altrove non è la tua accogliente casa?
Guardami
Cos’hai tu di diverso da me?
I miei occhi si commuovono come i tuoi
di fronte ai nostri bambini
Ma la mia bambina non è nata con un futuro assicurato
Il suo futuro me lo sono sudato
mettendola al mondo
sui sedili di un pullman
attraversando la Libia
e poi con lei il mare
Lasciandomi far del male
Ne porto i segni sulla pelle
Le mie belle e giovani guance
sono attraversate dalle cicatrici
delle lame affilate
che hanno voluto lasciare la loro firma indelebile
Per ricordarmi che io sono una donna
Una donna straniera
Una donna nera

Trascorriamo insieme tutta la giornata, lasciando che siano loro a guidarci nei luoghi che frequentano abitualmente. Passeggiando sottobraccio anche le storie più drammatiche trovano il coraggio di raccontarsi. Anita vorrebbe fare la parrucchiera e quando con aria sognante si blocca davanti alla vetrina di un parrucchiere, Wanda la trascina dentro e, con il consenso del proprietario, le scatta delle foto mentre con spazzola e phon in mano gioca come una bambina con i capelli di Fatou.

Ma è la stessa timida e dolce Anita che un istante dopo reagisce come una belva furiosa ai pesanti apprezzamenti di un balordo, tanto che dobbiamo trascinarla via. Le ragioni profonde le comprenderò di lì a poco, quando mi parlerà della sua fuga dalla Nigeria, attraverso la Libia. L’orrore di quel viaggio me lo racconta solo con gli occhi. Non credo che sia per mancanza di coraggio che non ne voglia parlare, quanto piuttosto per pudore e dignità. Purtroppo non è difficile immaginare cosa possa aver subito una ragazza giovane e bella come lei. Mi racconta però della sua Grace, partorita su un pullman durante il viaggio in Libia. Ci inviterà anche nel minuscolo appartamento dove è ospitata, per farcela conoscere.

Pranziamo tutte insieme in un locale che Omou frequenta abitualmente e che ci tiene a far conoscere. Con lei, durante la mattina avevo chiacchierato a lungo visitando la Salaborsa, luogo in cui è solita rifugiarsi a leggere per migliorare il suo italiano. Omou ha solo 19 anni, è in Italia da un anno e tre giorni (li conta!). Ha lasciato la Guinea e la sua bambina Fatima di 3 anni perché suo padre la voleva far sposare, ma a lei gli uomini non piacciono, lei ama le donne e in Italia ha trovato la libertà e l’amore. È un vulcano d’energia Oumou!

Libera
Sono fuggita
per essere libera
Libera di amare
Sono fuggita
da mio padre
e dall’uomo che mi voleva far sposare
Ho attraversato il mare
Ho portato con me
solo una fotografia
La mia bambina
Non è il frutto dell’amore
L’ho lasciata al di là del mare
Non è il frutto dell’amore
Ma è il mio amore
Sono fuggita per essere libera
Libera di amare
Sono fuggita in cerca di libertà
L’ho trovata a Bologna
Sabrina è il nome della mia libertà
e ci piace ballare

Il giorno dopo visitiamo un Centro di accoglienza straordinario (CAS) che ospita 6 donne e 6 bambini in attesa del visto e una struttura dello SPRAR (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) a Granarolo. Anche se i luoghi sono accoglienti e curati, inevitabilmente richiamano alla mente dei penitenziari. Queste donne però non hanno commesso alcun reato. L’ultima sera, tutte insieme, partecipiamo all’evento di One Billion Rising in Piazza San Francesco, contro la violenza sulle donne. Ed è un grande insegnamento constatare come, nonostante abbiano problemi più concreti e primari da affrontare, siano consapevoli delle discriminazioni genere che subiscono le donne tutte.

Il momento dei saluti è caloroso e commovente come può esserlo quello fra chi in soli tre giorni ha condiviso un’esperienza di sorellanza che spesso non basta una vita. Ancora non sappiamo che a Fano altre donne, altre storie, ci coinvolgeranno altrettanto profondamente. Il primo incontro è con Collins, la giovane mamma camerunense sbarcata in Italia nell’ottobre 2015 dopo aver partorito il suo secondogenito Divane, a bordo della nave Dignity di Medici Senza Frontiere in soccorso nel Mediterraneo. Collins presta servizio civile nella struttura della onlus Cante di Montevecchio, dove si prende cura degli anziani e fa ricerca per migliorare la qualità dei servizi offerti agli utenti della struttura.

Il suo racconto è un pugno nello stomaco che continua a far male anche a distanza di tempo. Aveva 25 anni Collins, quando per lavoro si reca con suo marito a Banki, nel nord del Paese, affidando temporaneamente ai genitori il primogenito Warren di appena 2 anni. Una notte un commando di terroristi di Boko Haram irrompe nella loro stanza. Vengono picchiati e rapiti. Dopo un viaggio bendata, Collins si ritrova in una baracca in mezzo alla foresta, con un altro centinaio di donne, separata dal marito, che non rivedrà mai più. Ogni giorno è scandito da violenze, sevizie e umiliazioni. Viene loro chiesto di rinnegare la fede cattolica per seguire l’islam. Chi si rifiuta è torturata e uccisa.

Collins è incinta di pochi mesi. “Se non fosse stato per il mio bambino avrei pregato di morire, ma dovevo vivere per lui”. Chiede aiuto per fuggire ad una prigioniera che conosce bene la zona. Le due donne fuggono attraverso la foresta fino al confine nigeriano, dove un conoscente presta loro un’automobile con cui raggiungono la Libia. Ma qui vengono ridotte in schiavitù da un gruppo di libici: una corda al collo e nessun vestito addosso, soggette allo scherno degli schiavisti. Ormai al termine della gravidanza, riesce a imbarcarsi su un gommone insieme ad altre 120 persone. Del salvataggio in mare da parte di Medici senza frontiere e del parto avvenuto sulla nave Dignity abbiamo il racconto dei giornali e delle televisioni, perché quello di Collins si è interrotto prima, sotto il peso dei ricordi.

La mia storia è dolorosa da raccontare
dolorosa da ascoltare
Se inizio a parlare
so già che ci faremo male
È la storia dei mie due bambini
i cui nomi
porto tatuati sulla pelle
Il più grande non lo abbraccio da tempo
Divane invece mi cresceva dentro
mentre ogni giorno mi torturavano
e mi stupravano
Se non fosse stato per lui
avrei invocato la morte
Ma avevo il suo futuro
da coltivare
così ho deciso di scappare
Quando hanno iniziato a sparare
mi ha salvato il fango
in cui ho affondato e nascosto
la mia pelle
Perdonami se non riesco più a parlare
Ho bisogno di respirare
e provare a dimenticare
Il resto della storia
lo puoi leggere sui giornali
Divane è figlio del mare
Il mare è l’unico padre
che potrà mai abbracciare

Il giorno dopo facciamo la conoscenza di Hope, ragazza nigeriana di 22 anni arrivata in Italia da sola e che ora vive nella struttura di Casa Lilith, a Roncosambaccio di Fano. Hope ha una splendida voce e il sogno di diventare cantante. Insieme ad altri giovani stranieri ha costituito una band, che ha chiamato Soul. Nella giornata trascorsa insieme ci ha raccontato la sua storia e ci ha regalato momenti di forte emozione quando nell’atmosfera ovattata di una delle chiese più belle di Fano ha intonato alcuni canti cristiani.

Ho avuto un dono
e quel dono mi ha salvata
Mi è stato dato un nome
e quel nome ha segnato il mio destino
Il mio dono
è una voce che sa cantare
ed emozionare
Era tutto ciò che avevo
quando non avevo niente
Chiudevo gli occhi
e cantavo
e quel che vedevo
non era più
l’arida terra ferita
e il mio futuro segnato
Chiudevo gli occhi
e cantavo
e quel che vedevo
erano porte aperte
e possibilità
erano giorni pieni di futuro
Giorni che potevano diventare
anni e vita
Non una scadenza
da toccare allungando appena la mano
E un giorno che cantavo
una voce dentro di me
ha urlato il mio nome
Ha gridato Hope
scuotendomi le spalle
E la mia voce ha cantato più forte
E la Speranza ha spalancato le porte
Ho sentito il vento
che mi spingeva a volare
e il mio canto
che lo cavalcava
e mi sollevava
dall’arida terra ferita
Ho continuato a cantare
e ad urlare il mio nome
anche mentre usavano
il mio essere donna
E più camminavo
E più mi allontanavo
E più cantavo
Hope
Speranza

A Casa Nazareth, spazio gestito dalla comunità di S. Egidio, ci accolgono due famiglie siriane arrivate da Aleppo a Fano tramite il corridoio umanitario. Gli sguardi apparentemente duri, la postura rigida; la richiesta di non essere fotografate. Queste donne ci sembrano chiuse a riccio. È evidente che non abbiano voglia di parlare dei lunghi anni vissuti sotto assedio. Come non capirle. Ma lentamente, a fatica, qualche ricordo supera la cortina delle labbra tese. I giorni senza più lavoro, senza acqua, luce e gas, le bombe che scandivano le ore, gli anni che trascorrevano così, nell’attesa e nella speranza di un ritorno alla normalità. Finché una notte una bomba cade nella camera da letto. Lo shock, i tre mesi in ospedale, la decisione di partire, di non poter attendere oltre, i 20 giorni d’attesa in Libano, prima di raggiungere l’Italia.

Con nostra grande sorpresa, accettano volentieri di incontrarci il giorno dopo per una passeggiata. Tre donne, tre generazioni: nonna, mamma e figlia di appena tre anni, sedute con noi al tavolino di un bar. Gli occhi si sono addolciti, le labbra accennano dei timidi sorrisi. A volte le parole sono superflue. Bastano certi sguardi per comprendere, per comprendersi.

Io non parlo
Se mi guardi
mi stringo forte alla mia mamma
Io ancora non lo so se mi piace stare qui
Di bello c’è che non esplodono più le bombe
Ma io la notte ancora le sento
e capita che faccio la pipì a letto
La mamma dice che non importa
Mi mette un pigiamino asciutto
e mi tiene a dormire fra le sue braccia
Ma io le bombe continuo a sentirle
e mi sembra ancora di avere la polvere sulla testa, negli occhi, in bocca
Sarà per quello che ho sempre i capelli arruffati e il viso pallido
Mamma dice che un giorno torneremo ad Aleppo
Io non lo so se ci voglio tornare
Io non so molte cose
perché sono piccola
Però neanche gli adulti me lo sanno spiegare
perché a casa nostra
cadevano dal cielo tutte quelle bombe

La settimana di residenza artistica è giunta al termine. Comincia il lavoro di rielaborazione dell’esperienza vissuta. Ci scambieremo, sia pure a distanza, impressioni, suggestioni e il racconto personale che ognuno di noi ha tradotto attraverso il proprio linguaggio, cercando di far incastrare i diversi tasselli in una rappresentazione artistica condivisa. Personalmente, attraverso la poesia, ho cercato di rendere omaggio a queste giovani donne meravigliose che vengono da lontano, fuggendo da drammi, attraversando altri drammi e, purtroppo, incontrandone altri ancora, una volta giunte nel nostro paese. Donne che, nonostante l’inferno che hanno vissuto, sono ancora capaci di sorridere e sperare in un futuro per sé e per i loro figli.

Loro, per me, rappresentano oggi il simbolo della forza delle donne.

Le opere realizzate dai gruppi partecipanti alle quattro residenze artistiche sono state esposte nei Festival organizzati dalle Associazioni partecipanti, primo dei quali Festivalito de Villaverde a Madrid, il 26 maggio 2018; poi Passaggi Festival a Fano, dal 27 giugno 2018; International Photography Festival a Zagabria dal 14 settembre 2018 e Balkan Photo Festival a Sarajevo, in programma a gennaio 2019.

Un sentito grazie a Giovanni Belfiori, presidente dell’Associazione Passaggi Cultura, per aver voluto incentrare sulle donne la parte italiana del progetto Refest ed anche il tema (“Il paese delle donne”) della sesta edizione di Passaggi Festival della saggistica di Fano, del quale è ideatore e direttore.

Info sul progetto: www.passaggifestival.it

Flavia Novelli

a sinistra gli 8 poeti italiani a Sarajevo; a destra tutti gli artisti al meeting di Sarajevo

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