ZAHA HADID: “Ci sono 360 gradi, allora perché fermarsi a uno solo?”

ZAHA HADID: “Ci sono 360 gradi, allora perché fermarsi a uno solo?”

ZAHA HADID: “Ci sono 360 gradi, allora perché fermarsi a uno solo?”

La parola che più di ogni altra mi viene in mente, quando penso a Zaha Hadid, è stupore.

Lo stupore di quando dici: “Porcamiseria che roba!”, e lo dici anche quando quel tipo di architettura che stai guardando è totalmente lontana dalle tue idee in fatto di costruzioni.

Lo stupore di quando ho visto per la prima volta pubblicata su una rivista una sua architettura, nel 1994, me lo ricordo ancora. Mi chiedevo come potesse, quella cosa, fatta di piani inclinati, storti ed appoggiati l’uno all’altro, contenere una stazione dei pompieri; a dirla tutta mi chiedevo anche come avesse fatto una donna a progettare quella cosa, tanto ero immersa nell’imperante maschilismo architettonico (nonostante fossi giovane studente). A quell’epoca Frank O. Gehry non aveva ancora terminato il famosissimo e visitatissimo museo Guggenheim di Bilbao, e le architetture “esplose” nello spazio non si vedevano così spesso sulle riviste.

Stazione dei pompieri Vitra a Weil am Rhein, Germania

Ma, le “esplosioni”, le curve, le linee tese, i piani sconnessi di Zaha, alla fine, erano diversi. Erano sì opere d’arte che modificavano il paesaggio, ma non erano calate lì a casaccio per il semplice gusto del gesto estremo dell’architetto che vuol “far vedere i muscoli” o lasciare un segno indelebile nella storia. Ecco, lei mi stupiva soprattutto per quello.

Adesso non me ne vogliano i sostenitori di Gehry o di tutti gli altri creatori di “sculture giganti”, ma lei, era veramente diversa. Il suo essere visionaria andava oltre, soprattutto perchè in lei c’è sempre stato uno studio profondo per ridurre l’architettura ai suoi elementi essenziali e puri, ma con uno sforzo incredibile per integrarli nella topografia naturale esistente, per dare vita a nuove forme di paesaggi urbani.

Ma lei suscitava stupore anche solo guardando una sua foto. Bastava guardarla in faccia per capire quanto il termine “archistar” fosse riduttivo: lei era la Regina dell’architettura. Era una Donna iconica, forte, sensuale, che è riuscita ad affermare la sua diversità e la sua arte in un mondo nel quale, come diceva lei: “Men think a woman should not have an opinion”. [Gli uomini pensano che una donna non dovrebbe avere un’opinione].

Sapeva benissimo di partire svantaggiata nei confronti di un mondo fatto di uomini: “Il mio lavoro non è stato ancora completamente accettato. Forse perché sono una donna. Ed anche araba. C’è un certo pregiudizio al riguardo”.

Zaha nasce il 31 ottobre 1950 a Baghdad, e si laurea in matematica a Beirut; si trasferisce poi a Londra, dove si laurea in architettura e, nel 1979, fonda il suo studio, lo Zaha Hadid Architects.

Quattro anni dopo vince il concorso internazionale per “The Peak Leisure Club” di Hong Kong (a cui parteciparono più di 500 architetti).

Pianta e prospettiva per “The Peak”

L’opera non fu mai realizzata ma, dalle tavole di progetto che sembrano quadri delle avanguardie russe, si capiva di che pasta fosse fatta. Lei stessa, riguardo a quel progetto, dichiarò che il suo lavoro era stato influenzato soprattutto dalle opere di Kasimir Malevich, che scoprì l’astrazione come principio sperimentale che può spingere il lavoro creativo a livelli d’inventiva mai visti prima. Ecco, Zaha nella sua carriera ha compiuto l’impresa incredibile di non far rimanere quella creatività solo sulla carta.

Le sue opere, da allora, hanno “invaso” il pianeta: dal London Acquatics Centre al Centro per l’Arte Contemporanea Rosenthal negli Stati Uniti, dalla stazione funicolare di Innsbruck alla Guangzhou Opera House in Cina, dall’Heydar Aliyev Cultural Center di Baku, dal MAXXI di Roma al “Diamante” del Porto di Anversa, dal terminal marittimo di Salerno al grattacielo per Milano Citylife fino alla stazione TAV di Afragola, inaugurata lo scorso anno. Per citarne solo alcune.

il MAXXI, Museo nazionale delle arti del XXI secolo a Roma, e la Port House (il “Diamante”) ad Anversa

Nel 2004 vince il titolo più ambito in architettura, quasi impensabile fino ad allora per una donna: il Prizker Prize, il Nobel dell’architettura. Rimarrà, credo ancora per molto tempo, l’unica donna ad averlo vinto, da sola.

Certo, in 30 anni di carriera e circa 950 progetti, non sono mancate le polemiche, le critiche, i problemi, ma lei combatteva per la sua arte e per i suoi progetti, che non nascevano certo per compiacere. Riguardo ai suoi progetti in Italia diceva “E’ come se in Italia le persone avessero paura di tutto ciò che è nuovo, evitino il cambiamento, lo allontanino” (…noi e la nostra storia millenaria da proteggere!)

Contemporary Arts Center, Cincinnati

Oltre ad essere stata la prima donna a vincere il Prizker, è stata la prima donna a vincere per due anni di seguito il prestigiosissimo Premio Stirling, ad essere nominata Dame Commander of the British Empire dalla regina Elisabetta nel 2012 ed infine, prima donna ad essere insignita della Royal Gold Medal nel febbraio 2016.

Già…infine…e chi se lo sarebbe aspettato che, neanche 2 mesi dopo, se ne sarebbe andata così, da un momento all’altro, senza preavviso, lasciando tutto il mondo attonito, stupito, senza parole?

A due anni di distanza, mancano i suoi slanci verso il futuro; le sue sperimentazioni continue, il suo voler andare oltre, il suo pensare che “ci sono 360 gradi, allora perché usarne uno solo?” e soprattutto ci manca sentirci dire che: “Alle donne è stato sempre detto: non ce la farai, è troppo difficile, non ce la puoi fare, non partecipare a questo concorso, non lo vincerai mai! Invece hanno bisogno di fiducia in se stesse e del supporto dalle persone vicine”.

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