La vita, qualche volta, si ritira come un ragno: Aleiandra Pizarnik.

La vita, qualche volta, si ritira come un ragno: Aleiandra Pizarnik.

La vita, qualche volta, si ritira come un ragno: Aleiandra Pizarnik.

Questo lillà si spoglia.
Cade da se stesso
e occulta la sua vecchia ombra.
Morirò pressappoco così.

Ho conosciuto Alejandra Pizarnik dalle lettere di Cristina Campo. L’ho cercata, l’ho trovata e mai più lasciata. Me ne sono letteralmente innamorata. Della sua poesia, delle epistole, dei diari (ancora non tradotti in italiano purtroppo), della sua anima tutta.

Questa poeta argentina, questa grandissima poeta argentina, è stata penalizzata dalla giovane morte: il suo ultimo gesto è diventato per molti, critici compresi, la chiave di lettura della sua poesia. Certamente parlare di Alejandra, così come per Silvia Plath, Anne Sexton, Antonia Pozzi, Virginia Woolf e più d’ogni altra Amelia Rosselli, è parlare anche di morte, ma sopra ogni cosa è parlare di linguaggio. Un linguaggio che traduce in poesia un problema esistenziale profondo, ingovernabile, irrisolvibile. Vita, morte, scrittura e poesia sono in Alejandra un corpo unico, un intero. In Argentina, e non solo, è stata un vero e proprio caso letterario: nella storia recente dell’editoria non si è mai verificato che un libro di poesia avesse le stesse tirature di un best seller. In Spagna la sua Opera poetica, oggi pubblicata anche in Italia da LietoColle a cura di Anna Becciu, ha sfondato il muro delle 25.000 copie vendute. La figlia dell’insonnia, di Crocetti Editore, è a mio avviso tra le traduzioni italiane meglio riuscite. Di Claudio Cinti.

Irrinunciabile Alejandra. Sarà perché è riuscita a dire la notte che ci abita e che abitiamo? Che mi abita e che io pure abito?

L’orrore di abitarmi, di essere – che strano – mia ospite, mia passeggera, mio luogo d’esilio.” ( Diarios. Lumen).

questa lugubre mania di vivere,
questa recondita facezia di vivere
ti trascina Alejandra non lo negare.

La sua vita è stata un continuo dialogo tra Eros e Thanatos, creazione e distruzione, coerenza e diversità. Coerenza con la propria diversità. Pizarnik ha avuto un unico strumento, un pharmakon – medicina e veleno al tempo stesso – che ne ha accompagnato e logorato l’ esistere: il linguaggio. Nelle parole ha cercato la verità di se stessa – “se c’è una ragione per la quale scrivo, è perché qualcuno mi salvi da me stessa” – attraverso l’alternarsi di presenza e assenza. Un continuo avvicendarsi di parole e silenzio, attraverso cui allontana la morte e al tempo stesso le vive accanto coi suoi fantasmi e le sue ombre.

La morte sempre al fianco.
Ascolto il suo dire.
Odo me sola.

A questo le serve scrivere. Si confonde nel suo sillabare, per nascere e morire, sgretolarsi e ricostruirsi. “Scrivere una poesia è riparare la ferita fondamentale, lo squarcio.” Come Antonin Artaud (che adorava), Alejandra sentiva nella sua stessa carne “la possibilità nell’impossibilità”. Di lei, dicono in Argentina, che sia nata con l’oscurità nell’ anima. La sua ribellione, la sua aria tragica e la sua passione son state alimentate da quella stessa oscurità con cui ha tessuto una poesia unica e irripetibile. “Ascolto la notte piangere nelle mie ossa”. Ci ha parlato di gabbie, specchi, occhi, pietre molto pesanti e ci ha lasciato Isabel Bathory, la contessa sanguinante. Ha navigato tra follia e sogno, per consegnarci un lavoro poetico straordinario e densissimo. Eppure di lei si ricorda più spesso, e ingiustamente, il suicidio che non le parole in eredità.

So poco della notte
ma la notte sembra sapere di me,
e in più, mi cura come se mi amasse,
mi copre la coscienza con le sue stelle.
Forse la notte è la vita e il sole la morte.
Forse la notte è niente
e le congetture sopra di lei niente
e gli esseri che la vivono niente.
Forse le parole sono l’unica cosa che esiste
nell’enorme vuoto dei secoli
che ci graffiano l’anima con i loro ricordi.

Alejandra Pizarnik è chiamata poetessa dell’assenza come Cristina Campo. “ Bisogna fare deserto di sé e del mondo, per vivere nel mondo – essere deserto in faccia agli uomini. Ci vedono, ma non vedono […] bisogna calarsi nel sottosuolo di sé.”- le scriveva in una lettera Cristina – “La vita, qualche volta, si ritira come un ragno; e bisogna resistere alla cattiva ispirazione di raccogliere le conchiglie.” Pizarnik si è tolta la vita il 28 aprile 1972 con un’overdose di barbiturici. Ha 36 anni. In uno di quei momenti che anche Cristina conosceva bene e chiamava di tenebra totale. Alejandra era una donna che si sentiva sempre straniera in questo mondo e parlava spagnolo con un accento europeo.

Il suo sguardo era triste e sempre un po’ assente. Il suo aspetto univa l’evocazione sartriana e persino faulkneriana. Sempre con una sigaretta in mano e in abiti trasandati.

Nasce in Argentina ad Avellaneda da genitori russo- ebraici immigrati. Il resto della famiglia morirà in Europa durante l’Olocausto. Suo padre si chiama Elías Pozharnik, ma i funzionari dell’immigrazione sbagliano a registrare il cognome, così la conosciamo come Pizarnik. E non solo, quando nasce, il 29 aprile 1936, si chiama Flora, nome che nel tempo, sempre alla ricerca di un’identità in cui riconoscersi cambia stabilmente in Alejandra. Era una bambinetta dal corpo minuto, un bel viso, i capelli biondi corti e occhi chiari pieni di bagliore che divoravano con avidità i classici di letteratura e in cui brillava uno scintillìo birichino. Bicho la chiamerà il suo amico Cortàzar, bestiolina. Come espressione della sua estrema fragilità interiore soffre già da piccola di asma e balbuzie. Una vera e propria prigionia somatica. Suo padre proverà ad aiutarla: paga una psicoanalista che cerca (invano) di darle un equilibrio e si fa carico delle spese del suo primo libro, The Last Innocence, quando è appena ventenne. Alejandra tenta anche con l’arteterapia ma né la pittura, né il disegno né la poesia sono sufficienti. La sua tenebra è una vera e propria spirale luminosa che l’avvolge: vive di notte, appende frasi e parole alle pareti, aspetta, disegna, contempla, demolisce il linguaggio per ricostruirlo.

La poesia che non dico,
quella che non merito.
Paura di essere due
sulla via dello specchio:
qualcuno che dorme in me
mi mangia e mi beve.

Denuda la realtà delle sue sovrastrutture destrutturando le parole-oggetto con cui di solito viene descritta:

alejandra alejandra
e sotto sono io
alejandra

Se da una parte la scrittura e la parola poetica sono una forma di salvezza, dall’altra rappresentano l’incarnazione dell’impossibilità di dire e soprattutto di dirsi.

Dal combattimento con le parole appartami
E spegni il furore del mio corpo elementare

Lei, figlia dell’insonnia, sperimenta il breve e pericoloso fenomeno psichedelico delle anfetamine, cura la sofferenza con gli antidolorifici e usa i sonniferi per sfuggire alle lunghissime e buie notti dell’anima. “Nel silenzio stesso (non nello stesso silenzio) ingoiare notte, una notte immensa immersa nel segreto dei passi perduti.

Come Cristina Campo, che passava le notti sveglia per il dolore di una malattia che l’affliggeva fin da piccola, anche Alejandra restava sveglia con l’asma pensando e ripensando a quali parole, scritte sulla lavagna nel suo piccolo appartamento di Buenos Aires, poteva cancellare e quali salvare.

E quando è notte, sempre,
una tribù di parole mutilate
cerca asilo nella mia gola,
perché non cantino loro,
i funesti, i padroni del silenzio.

E anche Alejandra, sempre come Cristina, ha una vita epistolare molto ricca. Nel 1960 si trasferisce a Parigi, dove frequenta caffè letterari, e qui incrocia Simone de Beauveoir, Battaille, Bonnefoy (di cui è stata traduttrice); stringe amicizie che saranno molto importanti per lei, come col grande poeta Octavio Paz. Gli anni trascorsi a Parigi sono decisivi nella sua maturazione. Quando nel 1964 torna a Buenos Aires «[…] era cambiata, anche fisicamente: i suoi tratti si erano induriti, era divenuta cupa, come torturata.”- così la descrive l’amico scrittore Antonio Requeni. Una vita dominata dal sentimento di perdita, di abbandono. Senza fine.

Un vuoto che rievoca irrefutabilmente la materia. Questa è una delle ragioni per cui la poesia della Pizarnik è considerata così fisica, corporea talvolta quasi “animale”. Perché lei dà corpo alle parole, le incarna fino al midollo. “Parole. È tutto ciò che mi hanno dato. La mia eredità. La mia condanna. Chiedere che la revochino. Come chiederlo? Con le parole. Le parole sono la mia assenza particolare.” Le incarna come fosse un nervo scoperto, come un cervello chiuso in una scatola cranica che la stringe ingabbiandola come una camicia di forza. Non era pazza Alejandra, era una meravigliosa visionaria. Come ha scritto il grande scrittore argentino Tomàs Eloy Martinez: “La realtà è un vasto labirinto in cui tutto si assomiglia..Alcuni sentieri si ripetono, altri no. Il futuro è lì, sotto gli occhi di tutti. Ma solo pochissimi, come Alejandra Pizarnik, riescono a scorgerlo”.

Un genio convulsivo che sapeva trasformare il dolore in poesia.

“Vorrei poter vivere solo in estasi, fondendo il corpo della poesia con il mio corpo, riscattando ogni frase con i miei giorni e le mie settimane, infondendo alla poesia il mio respiro in modo che ogni lettera di ogni parola sia sacrificata alle cerimonie del vivere”(“ Diarios 1960-1968 ”, op. Cit. , Pp. 279-280) .

Alejandra Pizarnik resta una figura solitaria nell’ambiente letterario. È distaccata dal suo contorno sociale, come lo era Cristina, e attenta soprattutto agli echi del proprio subconscio. La sua scrittura è contrassegnata (o segnata?) da una tremenda lucidità – Io posso parlare a pieno titolo del “dolore di essere viva”- e caratterizzata da un elevatissimo rigore stilistico. Lo stile di Pizarnik però, in apparenza semplice e quasi contratto, sottende una profonda ricerca di “perfezione poetica”, che guarda ai suoi predecessori più amati Kafka, Woolf, Mansfield, Pavese, Gide ma anche Nerval e Blake, maestri della poesia visionaria, onirica e notturna.

E’ uno sguardo ribelle quello di Alejandra. In ogni passo, passaggio, paesaggio.

Uno sguardo dalla fogna
può essere una visione del mondo.
La ribellione sta nel guardare una rosa
finché gli occhi non siano consumati.

Capite? E’ impossibile leggendola non restarne rapite. Rapite dal suo buio, nel quale ci si addentra con un po’ di paura, per poi trovarsi, seppur inquiete, in un luogo già conosciuto da piccole, ma di cui non abbiamo più memoria o non vogliamo ricordare.

Le parole non ti hanno salvato dalla morte Alejandra Flora, ma certamente ti hanno salvata dall’oblio.

Le parole avrebbero potuto salvarmi, ma sono troppo viva.”

FONTI:
Alejandra Pizarnik e il pharmakon del linguaggio di Francesca Ruin
La figlia dell’insonnia Alejandra Pizarnik Crocetti 2015
Poesia completa Alejandra Pizarnik LietoColle 2018
L’ altra voce. Lettere 1955-1972 Alejandra Pizarnik Giometti & Antonello 2019
Alejandra Pizarnik, Le opere e le notti 1965

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