Le indomite regine ribelli del blues nella Harlem degli anni ’20

Le indomite regine ribelli del blues nella Harlem degli anni ’20

Gertrude “Ma” Rainey

Gertrude “Ma” Rainey canta “Voglio che il mondo intero lo sappia.” Siamo nel 1928 e “The Mother of Blues” flirta, flirta con scandalo, sfidando chi ascolta a pensare alle relazioni lesbiche. E stiamo parlando di un’epoca in cui avere relazioni omosessuali poteva significare finire in prigione. È un coraggio che non spetta a tutt*.

Unica nella storia americana pre-Stonewall è “Prove It on Me Blues”, canzone assertiva di autoaffermazione e sfida lesbica. Il testo inizia con una frase che è già una sfida: “Dicono che lo faccio ma nessuno mi ha mai beccato”. Straordinaria canzone, scritta, eseguita e registrata nel 1928 da Ma Rainey: protagonista è una donna che disdegna l’uomo, ama le sue simili e lo dichiara apertamente sfidando il mondo a “dimostrarlo”. “Prove It on Me Blues”, è un raro e meraviglioso inno ribelle e di resistenza scritto e cantato da Ma Rainey.

“Sono uscita ieri sera con una folla di miei amici. Devono essere state donne, perché non mi piacciono gli uomini.” “Dicono che lo faccio, ma nessuno mi ha visto. Certo bisogna avere una prova”

Una guerriera che saliva sul palco con una piuma di struzzo in una mano e una pistola nell’altra e “non permetteva a nessuno di dirle chi doveva essere e come si dovesse rapportare al proprio corpo. E mostrava “con orgoglio cosa volesse dire essere libera  come meglio si sentiva” (1). Il blues degli anni ’20 era sinonimo di libertà assoluta, perché era una musica che non apparteneva all’America bianca e borghese, era fuori dal radar conformista. Così le grandi cantanti blues come Ma Rainey, il cui vero nome era Gertrude Pridgett, Bessie Smith e Gladys Bentley potevano esprimersi liberamente senza nascondere i propri desideri “non convenzionali”. Si esibivano al Clam House, ad Harlem, uno stretto e fumoso speakeasy sulla 133esima strada. Gladys Bentley, era una lesbica dalle forme prorompenti, il colore della sua pelle veniva risaltato dallo smoking  bianco che indossava insieme al  cappello a cilindro mentre, instancabile, cantava tutta notte. Era una pianista di talento con una magnifica voce graffiante. I suoi testi “sporchi” su melodie contemporanee popolari sono diventati famosissimi.

Gladys Bentley

Sempre al Clam, nel 1930, in “The Boy in the Boat”, Bessie Smith, la protetta di Ma Rainey, canta: “Quando vedi due donne che camminano mano nella mano, guardale e cerca di capire: andranno a quelle feste – avranno le luci abbassate – solo quelle feste dove le donne possono andare.

Bessie Smith era dichiaratamente bisessuale ed ebbe innumerevoli relazioni amorose con le ballerine dei suoi spettacoli, cosa che provocò molti scontri violenti tra lei e il marito geloso. Questo era il mondo del blues, il regno perfetto per le persone considerate “devianti sessuali”. E queste erano le regine del blues. Donne che vivevano per la maggior parte nell’indigenza e che fecero dei loro canti non solo una forma di sostentamento ma anche di emancipazione. Era la voce dell’Africa che sgomitava, facendosi posto nella nuova America. Era la voce delle donne che chiedevano rispetto e riconoscimento “dei loro corpi e di quelli rinnegati dal sistema, degli oppressi.” (1) Facevano parte del ventre sfrigolante di un’America che scendeva, sporca e profonda l’una negli orifizi dell’altra, dal sud di Jim Crow al nord in rapida urbanizzazione.

Negli speakeasy del jazz, nei bar e nelle feste private, le cantanti blues avevano la libertà di esplorare una sessualità alternativa e volendo di esprimerla anche nelle loro canzoni.

Non bisogna certo sopravvalutare il significato di quei pochi testi che Ma Rainey ha scritto, o Bessie Smith e Gladys Bentley han cantato facendo riferimento al lesbismo e all’omosessualità: perché sono solo una manciata tra le centinaia e centinaia di canzoni blues che sono state registrate; ma il fatto che ce ne fossero e che sia stato fatto in quegli anni è davvero notevole, quasi incredibile. Nel 1936 viene aperto a San Francisco il Mona’s 440 Club, il primo bar per lesbiche, dove si diceva: “Le ragazze saranno ragazzi”. Al Mona’s si esibivano artiste talentuosissime, sia bianche che nere, come Tina Rubio, Gladys Bentley, Frances Faye, Moms Mabley e Beverly Shaw. A Chicago invece c’erano il Roselle Club e il Twelve-half Club, ed entrambi furono chiusi dalla polizia negli anni ’30 perché “le donne in abiti maschili erano sostenitrici notturne di quei luoghi”. Molte delle coppie che frequentavano questi club erano state sposate da un ministro nero nel South Side di Chicago.

La comunità blues non aveva preoccupazioni riguardo alla rispettabilità, ecco perché si conoscono tante cantanti blues femminili con inclinazioni lesbiche e bisessuali.

Il lowdown dirty blues, quello che divenne noto come blues sporco o “hokum”, era ben diverso dallo stile di vita ligio e ambizioso promosso dalla classe dirigente degli afroamericani emergenti, che fondavano college neri e volevano assimilarsi al mondo e alla cultura degli edoardiani bianchi.

Il blues infatti fu condannato anche dalla Chiesa e dai predicatori neri. D’altronde la Chiesa oggi condanna pure lo Yoga che è mooolto meno dirty! Ma il Blues del “to feel blue”, quello del sentirsi malinconico, con quelle canzoni profane che avevano origine nelle antiche tradizioni africane, e che porteranno poi al Jazz, non poteva essere fermato. Perché ha un’anima immortale. Infatti i cabaret blues fumosi proliferarono sempre più nelle aree urbane che lentamente si popolavano di afroamericani e Ma Rainey e Bessie Smith continuarono a divertirsi con allusioni sessuali, con vestiti stravaganti, lustrini, trucco, ogni sorta di monili impertinenti diventando delle star.

La borghesia nera, gli aspiranti neri della classe media post-vittoriana, erano molto ostili all’omosessualità. Non erano la maggioranza della comunità nera certo, ma stavano cercando di imporsi come leader. La morale post-vittoriana era che non dovevi avere rapporti sessuali prematrimoniali: ti sposi, cresci una famiglia, stai insieme per tutta la vita, vai in chiesa e cresci dei veri figli cristiani che prenderanno il loro posto nella società e si riprodurranno a loro volta.

Bessie Smith

La libertà e la spregiudicatezza del blues spaventava, perché mandava messaggi forti che si allargavano a macchia d’olio, anche tra le giovani generazioni bianche. Spaventavano queste “regine […] guerriere, con una visione: riuscirono a capire che quello che stavano facendo non riguardava solo se stesse, ma rappresentava l’intero popolo afroamericano e il mondo circostante.

Alla fine degli anni ’20 la 133esima strada di Harlem veniva chiamata ‘Jungle Alley’, perché c’erano tantissimi locali notturni dove si suonava e cantava il blues sporco. I testi delle canzoni parlano di “bulldykers “, che all’epoca venivano chiamate butch lesbians, o” BD women “(abbreviazione di bulldykers), quelle che indossavano “scarpe brogan” da uomo, calzature che nessuna donna avrebbe indossato a meno che non fosse travestita o gay. In questo periodo ci furono alcune dimostrazioni aperte di “sessualità alternativa” sia ad Harlem che nel Greenwich Village bianco. L’Harlem Renaissance fu un movimento artistico-culturale afroamericano, sorto verso l’inizio degli anni venti negli Stati Uniti, che sfidava gli atteggiamenti paternalistici e razzisti. Erano artisti e intellettuali afroamericani che rifiutavano di vivere imitando lo stile degli europei e dei bianchi d’America, esaltando invece la dignità e la creatività rivendicando la libertà di esprimersi a proprio modo, riconoscendo la propria identità e celebrando la cultura nera emersa dalla schiavitù e i legami culturali con l’Africa.

L’Harlem Reinassance ebbe un profondo impatto non solo sulla cultura afroamericana, ma anche su tutte le altre culture frutto della diaspora africana: artisti afro-caraibici francofoni, e intellettuali delle Indie Occidentali Britanniche, diedero vita intorno agli anni ‘30 alla Negritude, movimento di protesta contro il dominio coloniale che enfatizzava e sottolineava l’ autocoscienza e l’elevazione delle tradizioni africane. Con la stessa nostalgia del Blues. L’America delle donne era in subbuglio. Nello stesso periodo, nel Greenwich, si fecero strada le cosiddette “flapper girl“, giovani donne bianche note per la loro libertà energica, che abbracciavano uno stile di vita considerato da molti come oltraggioso, immorale o addirittura “dangerous”. Adesso sono considerate la prima generazione di donne americane indipendenti, perché hanno spostato le barriere nella libertà economica, politica e sessuale sfidando apertamente il sistema, ma a quel tempo i perbenisti post vittoriani le consideravano delle “poco di buono”. Donne che uscivano a ballare e bere nei club jazz e abbracciavano la promiscuità. Donne che col loro anticonformismo abbattevano muri, come dall’altra parte dell’Oceano faceva Coco Chanel, , rivoluzionaria di umili origini che usava il jersey e prendeva spunto dall’abbigliamento povero della classe operaia; o come faceva Colette che per prima si esibì su un palco teatrale baciando una donna: due outsider che incarnavano per molti reazionari il deterioramento della virtù femminile.

Djuna Barnes e Thelma Wood

C’è un abisso tra questi mondi. C’è davvero? E’ probabile che le flapper abbiano preso molti spunti da queste dive del blues. Bevevano e si vestivano in modo appariscente e sgargiante, non si sottomettevano agli uomini in alcun modo e non accettavano di adeguarsi a quello che era il modello di femminilità post-vittoriana della cultura dominante all’inizio del secolo. Tra queste c’era anche Djuna Barnes, arrivata per la prima volta al Greenwich Village nel 1915, diventando parte della crescente comunità “bohémien”. Fuggirà, come tanti altri intellettuali, da quest’America perbenista e proibizionista, espatriando nella ben più libera Parigi. E quando leggo il suo Nitghthwood del 1936, moderno e visionario, non riesco a non pensare come possa non essersi ispirata a queste figure del blues di Harlem, che si trovava a sole 10 miglia dal Village, per i suoi personaggi meravigliosamente “deviati” che amo immensamente. Da leggere assolutamente.

Quella degli anni ’20 è l’America del blues. Un’ America di ritrovata mobilità sociale, contaminazione, politica progressista, fiorente clandestinità, spirito liberale e orgoglio nero. Un’America di ” liberazione culturale e di fermento creativo”. L’America di donne che “diedero voce a una necessità proveniente dal basso, dalla gente e dalla comunità tutta, non solo femminile. Fecero “una musica con dentro della storia”(1). Una musica la cui storia parte dal cotone per arrivare a cantare, con voce graffiante, le proprie ”radici, consapevolezza, resilienza” come scrive Elisa de Munari nel suo bellissimo libro “Countin’ the blues – donne indomite”, che consiglio assolutamente a tutte e tutti.

È l’America delle indomite donne del blues: stubborn e free, testarde e libere.

Molte delle vecchie scommesse bianche stanno fallendo. Hallelujah.

E se vogliamo capire la grandezza del blues, ascoltiamo almeno una volta l’interpretazione di Ball And Chain fatta Big Mama Thornton, e ripresa da Janis Joplin. Quando parlavo di anima immortale non scherzavo.

Big Mama Thornton https://www.youtube.com/watch?v=vypSOetzlQo
Janis Joplin https://www.youtube.com/watch?v=PoXWZCEBp_0

 

 

BIBLIOGRAFIA
(1) Elisa De Munari, Countin’ the blues. Donne indomite, Arcana 2020
https://it.swashvillage.org/article/the-mother-and-the-empress-ma-rainey-and-bessie-smith-2
https://www.atlasobscura.com/articles/the-queer-black-woman-who-reinvented-the-blues

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